Immagine-pensiero-sensazione
Penso il corpo o sento il corpo?
La domanda da porci è relativa al pensare e al sentire il nostro corpo. Chiediamoci se abbiamo più un’idea di corpo piuttosto che un flusso di sensazioni connesse al corpo.
Il senso di noi stessi è ancorato in una connessione vitale al nostro corpo.
Non siamo se non in relazione a ciò che sentiamo. Ogni cosa che diciamo o facciamo è in relazione al nostro sentire. Non conosciamo noi stessi, non sappiamo chi siamo, se non siamo in grado di sentire e dare un senso al complesso mondo delle nostre sensazioni.
Pensare è in relazione all’immagine.
Quindi prevalentemente la relazione con se stessi è data dall’idea e dall’immagine e non dal sentire.
Lowen: “Pensare può essere definito come il processo di fare connessione tra le nostre sensazioni e l’immagine che abbiamo in mente del nostro ambiente”, pensare è un ponte tra l’immagine e la realtà interna ed esterna a noi. (…) La persona non consapevole è anche incauta. L’immagine che ha di sé non coincide con quella che presenta agli altri e la sua ingenua accettazione di questa immagine la lascia aperta a risposte inaspettate”.
Tutta la ricerca di Lowen affonda le radici nel sentire corporeo: “Solo attraverso il corpo si fa esperienza della vita e del proprio essere nel mondo. Ma entrare in contatto col corpo non basta: bisogna anche mantenere questo contatto, e questo significa assumersi un impegno nei confronti della vita del corpo. Questo impegno non esclude la mente, ma esclude l’impegno verso un intelletto dissociato, verso una mente non attenta al corpo. L’impegno nei confronti della vita del corpo è l’unica garanzia che il viaggio abbia successo e si concluda con la scoperta di se stessi”.
Riconoscere la tensione muscolare
Continuando con Lowen scopriamo il significato della tensione muscolare associata alla percezione del corpo: “La perdita della consapevolezza di sé è causata da una tensione muscolare cronica, che differisce dalle normali tensioni della vita quotidiana perché si tratta di uno spasmo muscolare persistente e inconscio che è diventato parte della struttura corporea, ovvero del modo di essere”.
La mente nascosta
In questi anni anche i neuroscienziati ci fanno capire quanto le nostre aree cerebrali rispondono e influenzano la nostra relazione con le sensazioni corporee.
Antonio Damasio neurologo che ha dedicato la sua carriera alla mappatura di ciò che è responsabile della nostra esperienza del ‘sé’. Scrive: “talvolta usiamo la mente non per scoprire i fatti, ma per nasconderli. Usiamo una parte della mente come schermo per impedire a un’altra sua parte di sentire quel che accade altrove. La schermatura non è necessariamente intenzionale – il nostro offuscamento non è sempre deliberato; in ogni caso, lo schermo nasconde davvero. Tra le cose che nasconde nel modo più efficace, vi è il corpo, il nostro stesso corpo, e con ciò intendo i suoi meandri, le sue parti interne”.
Damasio, a distanza di anni da Lowen, con ricerche neuroscientifiche, ci conferma che noi abbiamo un’idea di noi stessi e del nostro ambiente e che essa può essere una schermatura adattativa, un offuscamento non deliberato, quella che Lowen chiama corazza autodifensiva. La mente nasconde gli stati interni del corpo.
Sviluppare la capacità di sentire il corpo include l’integrazione e svelamento anche di quella parte della mente che lo nasconde, quella parte che crea un’immagine e una dissociazione.
Noi traduciamo tutto ciò con l’attivare il nostro ‘senso corpo-mente’ grazie agli esercizi biocreativi: con il movimento, il respiro e la creatività, sviluppiamo la capacità di sentire e di entrare in un ascolto acritico e accogliente degli stati interni del corpo.
Abito il mio corpo e coltivo la sua vita costantemente. Divento uno scopritore e un costruttore, un viaggiatore verso il nucleo, il core, verso la natura di ciò che chiamiamo sé.
Prendo nota o sento?
L’approccio graduale
Quello di cui scrivo non deriva da teorie ma è dovuto alla mia esperienza personale e a quella vissuta come insegnante nei Laboratori di Biocreatività Energetica®. E’ evidente la tendenza ad evitare l’ascolto e la consapevolezza delle proprie sensazioni, sia per mantenere l’immagine di sé, sia perché la persona non saprebbe cosa fare.
Lowen: “La persona non è consapevole di avere tensioni croniche finché non le provocano dolore. Quando ciò accade può avvertire la tensione sottostante ma è inconsapevole del suo significato e del perché si sia sviluppata ed è incapace di fare qualsiasi cosa per ridurla. (…) Si sente a proprio agio negli atteggiamenti strutturati, inconsapevole delle limitazioni che questi impongono al loro potenziale di vita”.
La difficoltà, che si evidenzia con tante forme di evitamento, è inevitabile, e comunque l’approccio al sentire è sempre graduale.
Guardo da lontano
‘Prendo nota’ è un primo approccio all’esperienza corporea. Normalmente noi abbiamo una sommaria e superficiale percezione di noi stessi. Si percepisce un generico campo di informazioni e sensazioni e ci si limita a questo.
Nel prendere nota, l’apertura all’ascolto e al sentire è minima perché ci si limita a un leggero percepire, sia perché resisto all’esperienza profonda senza esserne consapevole e anche perché non conosco come fare.
Ciò non è condannabile: è quello che so fare ed è anche quello che posso permettermi. Prendere nota è come guardare da lontano un paesaggio in modo generico, la distanza non permette di scoprire i dettagli o di approfondire la conoscenza di ciò che guardo. In questa prima fase entrano in gioco due fattori: il primo è dovuto al non sapere come fare che si intreccia al secondo fattore che è resisto al sentire.
Nei Laboratori constatiamo quanto le persone non si siano mai soffermate a coltivare l’ascolto e quindi ignorano il mondo delle sensazioni corporee che sta oltre il prendere nota, oltre il campo delle informazioni generiche.
E qui entra in gioco il ruolo del conduttore/facilitatore. La conduzione è sia verbale che pratica perché l’operatore compie gli esercizi con il gruppo e questo ‘metodo’ è fondamentale per poter attivare il nostro sentire senza timori.
Accompagnati e condotti iniziamo il viaggio. l’insegnante con la sua voce, le parole e i suoi movimenti conduce l’esperienza e la sequenza di esercizi.
Perché evito?
Durante il percorso iniziamo a sentire quanta resistenza abbiamo nel contattare la nostra interiorità. Capisco che mi farà stare bene e non capisco perché la evito. Questa opposizione si rivela in tanti modi, con tante distrazioni adattative. A volte quanto più è efficace un incontro tanto più dimentico l’appuntamento successivo o mi giustifico con mille spiegazioni. I pensieri durante gli esercizi non lasciano la presa e tengono la mente impegnata in programmazioni future o in episodi accaduti in un passato recente o lontano. I pensieri mi invadono e vagano liberi in una terra di nessuno.
E’ in questi modi che sposto ancora lo sguardo verso ciò che è fuori da me, una famigliare abitudine, mantenendo così atteggiamenti strutturati.
Perché scoprire che la propria vita si è costruita verso tutto ciò che è fuori, all’esterno del sentire interiore, può essere una constatazione molto scomoda, difficile da accettare, ma nello stesso tempo, spostare lo sguardo all’interno può fare veramente paura.
Paura dell’ignoto? Paura del cambiamento? Vergogna? Paura di ciò che posso trovare? Scoprire che l’immagine che ho costruita di me stesso non corrisponde? Dolore fisico, essere impacciati, disagio … tutto questo è come un magma indistinto.
Autoregolazione
Non sappiamo che possiamo imparare l’autoregolazione. L’autoregolazione non è un metodo vero e proprio ma nei laboratori viene sostenuto e insegnato come svilupparlo.
Dobbiamo affrontare la nostra resistenza, la corazza dell’autodifesa, ma nello stesso tempo dobbiamo confidare in un principio di autoregolazione che ci fa arriva fin dove possiamo andare volta per volta. Così inizia un dialogo costante tra il nostro tenerci fuori ed estranei e la possibilità di confidare in un sistema ‘salvavita’ di autoregolazione, innato e istintivo.
Il nostro è un viaggio nei territori di confine: sposto il limite e nello stesso tempo mi autoregolo.
Lowen ci dice: ‘Sono convinto che la terapia sia un viaggio alla scoperta di se stessi. Non è un viaggio breve né facile, e non è privo di dolore e di sofferenza. Vi sono pericoli e rischi: ma la vita stessa non è scevra di rischi, perché è essa stessa un viaggio nel futuro ignoto’.
Così proseguiamo diventando dei veri viaggiatori, e più avanziamo, più scopriamo quanto ci piace viaggiare!
alessandra.m.trento©
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